Realtà identitarie smarrite. Emancipazione e sviluppo

Presentazione martedì 14 settembre ore 18.00 Biblioteca Comunale Ferentino

“Realtà identitarie smarrite. Rilettura della evoluzione dei modelli antropologici in Ciociaria dagli anni cinquanta ad oggi“, di Annamaria Mariani, a cura di Paolo Iafrate, Postfazione di Francesco Pompeo

Le attività di ricerca e selezione dei materiali, in particolare di raccolta, lettura e rielaborazione delle interviste sono state svolte in collaborazione con Paolo Iafrate.

Il professore Francesco Pompeo, docente di Antropologia sociale presso l’Università Roma Tre ha curato la postfazione, Restituire storie, praticare memoria: note antropologiche per un’altra modernità Ciociara

I testimoni che hanno reso possibile un coinvolgente contatto con storie particolari che, nel loro piccolo, contribuiscono a scrivere la storia con la “S” maiuscola: Notarcola Francesco, Loffredi Angelo, Mazzoli Ignazio, Federico Maurizio, Blasi Gianni, Galeone Donato, Valleriani Alberto, Oi Eugenio, Sorge Luigi, Capoccia Ettore, Rea Lorenzo, e tutti gli altri come Luigi, Sergio, Angela, Giovanni, Pietrina, Clara, Mario, Giuseppina, Ines, Ambrogio, Silvana, Marisa di cui viene indicato solo il nome per ragioni di tutela della privacy.

L’emancipazione non è perdita d’identità

Marisa, ex-operaia Saiag Sud racconta cosa significasse essere operaie, appendici di macchinari alienanti, senza tempo per qualsiasi altra attività. Un lavoro che dava alle donne autonomia economica ma che nello stesso doveva essere conciliato con il lavoro domestico e della cura dei figli.

Le parole di Marisa fanno riflettere sul senso del termine “emancipazione”, che non può essere una autentica liberazione se essa equivale alla perdita di identità come essere umano che diventa macchina e come donna che rinuncia ad essere anche madre e moglie come desidererebbe.  «Ho vissuto il tempo dell’inizio e della fine della industrializzazione, ho visto i cambiamenti positivi che questa ha portato. Oggi le fabbriche sono tutte chiuse, non per colpa degli operai; i sindacati spesso sono arrivati a compromessi contro gli operai, facendo prevalere gli interessi degli imprenditori. Grazie al benessere di quegli anni le persone oggi non si ricordano più da quali ambienti poveri siano venute e nonostante i tempi favorevoli che ci sono stati ora siamo di nuovo in mezzo a tanti problemi.

Ho lavorato 13 anni in fabbrica tra cassa integrazione e lavoro effettivo e penso che potevamo risparmiarci tutti i danni dell’industrializzazione. L’uomo, che è un essere intelligente, poteva sfruttare le risorse in altro modo. L’azienda con i suoi ritmi mi distruggeva, non eri tu che gestivi la macchina ma la macchina che gestiva te: correvo da una parte all’altra della catena di montaggio e del reparto, avevo poche relazioni sociali con le colleghe e con le amiche fuori dalla fabbrica. Quando al termine del turno tornavo a casa, stanca fisicamente e psicologicamente, potevo rendermi conto di quanto avevo perso in termini di qualità della vita: tempo tolto alla cura dei figli, stress portato in famiglia, mancanza di piacere nel fare qualsiasi altra cosa. Abbiamo comprato automobili, elettrodomestici, case nuove e belle ma abbiamo perso i tesori del territorio e una parte della nostra essenza umana diventando robot. Il singolo operaio che aveva ancora il terreno e l’interesse per la terra ha mantenuto una identità, un motivo in più per lavorare; ha vissuto la fabbrica per migliorare la terra. Queste persone avevano una identità più forte perché quella permanenza del legame con la terra ha consentito loro di superare l’alienazione prodotta dal lavoro in fabbrica.

Una donna che portava in casa il salario aveva sicuramente una posizione diversa e più forte nelle relazioni familiari, ma non credo che questa potesse essere definita una vera emancipazione. Mi sarebbe piaciuto emanciparmi in modo diverso realizzandomi come donna e progredendo culturalmente: invece abbiamo messo in secondo piano le esigenze dei figli, li lasciavamo di qua e di là, “villane” cioè persone senza cultura eravamo e “villane” siamo rimaste, succubi degli uomini eravamo e così siamo rimaste. Io ero una turnista e per fortuna due o tre ore al giorno ci sono stata con mia figlia, ma peggio stavano quelle che uscivano di casa alle sette di mattina e rientravano alle cinque di pomeriggio. Quanto ci è costata questa scelta? 

Il salario con cui abbiamo soddisfatto le esigenze futili del nuovo benessere è servito a compensare vanità e mode del tempo, ma come emancipazione intellettuale, politica e sindacale siamo rimaste come eravamo. Non c’è stata una effettiva crescita. Quale operaia dopo il turno in fabbrica, una volta tornata a casa, poteva leggere un libro, fare una vita sociale? L’emancipazione femminile determinata dal lavoro extrafamiliare non può equivalere ad una perdita del ruolo di donna né può essere concepita come inibizione del desiderio di crescere e migliorarsi spiritualmente e socialmente come persona. Qui in zona non c’era vita sociale, la gente pensava a migliorare la qualità della vita solo in senso economico, la macchina grossa significava che stavi meglio di prima. Però oggi la resa dei conti ci fa capire che l’uomo deve ora usare l’intelligenza, creare qualcosa di nuovo per uscire dallo stallo in cui siamo caduti».