La democrazia partecipata. Dalla fabbrica alla società

Paliano 1° ottobre. Presentazione del libro “Realtà identitarie smarrite”

Nel 1967 esplose la contestazione del movimento degli studenti e la lotta si estese presto dal piano sindacale a quello sociale e politico, dalle tematiche del lavoro alle problematiche degli sfratti, degli affitti, dei servizi, dell’inflazione, delle pensioni e del caro-vita[1]. Le assemblee aperte consentivano la partecipazione degli operai, degli esponenti della politica, della cultura, degli studenti, del mondo della scuola, dei cittadini e delle diverse associazioni operanti sul territorio. Nei luoghi decisionali il dialogo e la concertazione portavano a soluzioni unitarie.

Francesco Notarcola utilizza le suggestive parole “equilibrio di rappresentanza” e “democrazia partecipata” come espressioni per descrivere questa situazione di estensione della protesta che diventa strumento per la soluzione di problemi di diverse categorie e per un rinnovamento sociale generale:«Le istituzioni politiche e sindacali da un lato e le componenti sociali dall’altro esprimevano le nuove esigenze con “equilibrio di rappresentanza”. Il Consiglio comunale era specchio di una realtà vivace e aveva interesse politico a farsi portavoce di tutte le esigenze territoriali. Spesso si discutevano le vertenze a livello provinciale con la partecipazione del rappresentante dell’Assessorato al lavoro della Regione. Le lotte contadine per il riscatto delle terre venivano anche sostenute dagli operai degli opifici tessili della Valle del Liri quando collettivamente contribuivano a pagare le spese legali per i contadini denunciati dai padroni per aver alzato le prime case in mattoni sulle proprietà di questi ultimi. Questa “democrazia partecipata” si esprimeva come collaborazione tra le classi sociali e come sinergia tra le varie competenze istituzionali nella valutazione delle necessità di una realtà che stava cambiando: essa determinò lo sviluppo economico del nostro Paese ed una crescita politica del nostro territorio.

La spinta della classe operaia successivamente condusse alla maturazione di una identità politica anche del ceto impiegatizio che fino ad allora mancava e conseguentemente alla legge di riforma del pubblico impiego. La pressione era così scatenante che le conquiste si codificavano in leggi. Per esempio la legge di riforma sanitaria prevedeva un capitolo dedicato alla partecipazione alla stipulazione ed alla verifica della esecuzione dei contratti delle Unità sanitarie locali da parte dei cittadini e delle associazioni. Questo capitolo non fu mai rispettato e ancora oggi si può dire che sia rimasto soltanto sulla carta; alla sua applicazione si opponevano i partiti e i dirigenti regionali delle Unità sanitarie locali».


[1] Nel luglio del 1969 i sindacati CGIL, CISL, UIL e SIDA proclamarono a Torino uno sciopero generale per il blocco degli affitti; circa 3000 operai, studenti e cittadini manifestanti furono costretti a difendersi dagli attacchi violenti delle forze dell’ordine.