Marisa ci ha lasciato

Un pezzo della ns storia è andato via. Si è volatilizzato. Marisa ci ha lasciato, Così, senza tanti reclami, tanti annunci…

Ma i ricordi sono forti Marisa, non è possibile dimenticarti. Hai sofferto tanto nell’ultimo anno. La malattia, il distanziamento sociale… hanno pesato tanto. Eppure non hai fatto rumore. Hai sempre vissuto nella dignità popolare che non mischia la propria situazione con quella sociale. La sofferenza del “mondo dei vinti” di quelli che hanno coscienza ma la ribadiscono solo nelle lotte sociali e non in quelle personali che rimandano a sensibilità della comunità. Quelle che oggi, e tu l’hai sempre denunciato, manca, si fa fatica a percepire.

Quel senso di comunità che siamo riusciti a riallacciare attraverso le lotte, l’affermazione dei diritti, l’opposizione al potere. Spesso incompresi, come è incompreso chiunque non si adegua, chiunque voglia riflettere, chiunque usi comportamenti non conformisti.

L’opposizione sociale si univa ad una impari lotta contro, appunto, il conformismo, di quelli che ci sono vicini soprattutto. Non nascondevi le umiliazioni, le difficoltà economiche, familiari, sociali. Altri invece lo fanno e continuano a farlo rinunciando alla propria identità. Tu persona schietta, istintiva, perspicace, diretta non potevi. E questa era la tua forza di trascinamento. Con chi aveva il potere, le “autorità” che tra una parola e l’altra ci licenziavano, ci disprezzavano, arrivavano dure le tue invettive. Forti ad alta voce. Sapevi che con il potere non c’è razionalità che tenga. Il popolo, la classe operaia, deve mostrare la rabbia, la determinazione…. Non c’è altra via. Alcuno si deve permettere di trascinarci fuori da ciò che liberamente siamo.

E nonostante tutto, eri sempre la migliore lavoratrice. Un esempio di come portavi rispetto a quello che chiamiamo “lavoro”. Un concetto difficile che però hai sempre rispettato. Anche nelle situazioni più umili riuscivi a dare importanza a qualsiasi attività… in fabbrica, al servizio del verde, nello scuolabus, con i ragazzi disabili, in tutte le attività dove ti impegnavi nascevano fiori, interessi, attenzioni. Pur nella critica rispettavi te stessa e rispettavi gli altri.

Rimane cristallizzato nella mia mente quando, licenziata senza quel lavoro per cui avevi a lungo lottato, hai ricominciato con i mercatini… Producevi tutti i pezzi uno ad uno e andavi a venderli, per poco, pochissimo, ma l’intento istintivo era quello di dimostrarsi vivi e capaci, come pochi di noi sanno fare. Un esempio Marisa. Sei stata per me un esempio. Perché il mix di umiltà, coscienza, dovere, rispetto concentrati in una unica persona difficilmente si trova.

Sei arrivata alla pensione con caparbietà e anche lì con diritti dimezzati. Ma hai portato a termine la tua vita lavorativa pubblica. Hai accompagnato Silvana fino all’ultimo. Hai avuto Maria Grazia e Nadia vicine. Hai alla fine riunito la famiglia nell’affetto e nella condivisione.

Non lasci niente d’intentato. TI salutiamo con le tue parole esemplificative della tua vita e dei nodi che ti auspicavi la maturazione della coscienza sciogliesse:  

 «Una donna che portava in casa il salario aveva sicuramente una posizione diversa e più forte nelle relazioni familiari, ma non credo che questa potesse essere definita una vera emancipazione. Mi sarebbe piaciuto emanciparmi in modo diverso realizzandomi come donna e progredendo culturalmente….

Il salario con cui abbiamo soddisfatto le esigenze futili del nuovo benessere è servito a compensare vanità e mode del tempo, ma come emancipazione intellettuale, politica e sindacale siamo rimaste come eravamo. Non c’è stata una effettiva crescita. Quale operaia dopo il turno in fabbrica, una volta tornata a casa, poteva leggere un libro, fare una vita sociale? L’emancipazione femminile determinata dal lavoro extrafamiliare non può equivalere ad una perdita del ruolo di donna né può essere concepita come inibizione del desiderio di crescere e migliorarsi spiritualmente e socialmente come persona. …. Però oggi la resa dei conti ci fa capire che l’uomo deve ora usare l’intelligenza, creare qualcosa di nuovo per uscire dallo stallo in cui siamo caduti».

Marisa illumina il nostro cammino, che siamo diretti nella stessa direzione.

Marisa Cianfrano una pasionaria dei tempi moderni,

By Fausta l’ insognata Dumano – 30 Maggio 2021


Dal libro “Realtà identità smarrite di Annamaria Mariani”

L’emancipazione non è perdita d’identità

Marisa, ex-operaia Saiag Sud racconta cosa significasse essere operaie, appendici di macchinari alienanti, senza tempo per qualsiasi altra attività. Un lavoro che dava alle donne autonomia economica ma che nello stesso doveva essere conciliato con il lavoro domestico e della cura dei figli.

Le parole di Marisa fanno riflettere sul senso del termine “emancipazione”, che non può essere una autentica liberazione se essa equivale alla perdita di identità come essere umano che diventa macchina e come donna che rinuncia ad essere anche madre e moglie come desidererebbe. «Ho vissuto il tempo dell’inizio e della fine della industrializzazione, ho visto i cambiamenti positivi che questa ha portato. Oggi le fabbriche sono tutte chiuse, non per colpa degli operai; i sindacati spesso sono arrivati a compromessi contro gli operai, facendo prevalere gli interessi degli imprenditori. Grazie al benessere di quegli anni le persone oggi non si ricordano più da quali ambienti poveri siano venute e nonostante i tempi favorevoli che ci sono stati ora siamo di nuovo in mezzo a tanti problemi.

Ho lavorato 13 anni in fabbrica tra cassa integrazione e lavoro effettivo e penso che potevamo risparmiarci tutti i danni dell’industrializzazione. L’uomo, che è un essere intelligente, poteva sfruttare le risorse in altro modo. L’azienda con i suoi ritmi mi distruggeva, non eri tu che gestivi la macchina ma la macchina che gestiva te: correvo da una parte all’altra della catena di montaggio e del reparto, avevo poche relazioni sociali con le colleghe e con le amiche fuori dalla fabbrica. Quando al termine del turno tornavo a casa, stanca fisicamente e psicologicamente, potevo rendermi conto di quanto avevo perso in termini di qualità della vita: tempo tolto alla cura dei figli, stress portato in famiglia, mancanza di piacere nel fare qualsiasi altra cosa. Abbiamo comprato automobili, elettrodomestici, case nuove e belle ma abbiamo perso i tesori del territorio e una parte della nostra essenza umana diventando robot. Il singolo operaio che aveva ancora il terreno e l’interesse per la terra ha mantenuto una identità, un motivo in più per lavorare; ha vissuto la fabbrica per migliorare la terra. Queste persone avevano una identità più forte perché quella permanenza del legame con la terra ha consentito loro di superare l’alienazione prodotta dal lavoro in fabbrica.

Una donna che portava in casa il salario aveva sicuramente una posizione diversa e più forte nelle relazioni familiari, ma non credo che questa potesse essere definita una vera emancipazione. Mi sarebbe piaciuto emanciparmi in modo diverso realizzandomi come donna e progredendo culturalmente: invece abbiamo messo in secondo piano le esigenze dei figli, li lasciavamo di qua e di là, “villane” cioè persone senza cultura eravamo e “villane” siamo rimaste, succubi degli uomini eravamo e così siamo rimaste. Io ero una turnista e per fortuna due o tre ore al giorno ci sono stata con mia figlia, ma peggio stavano quelle che uscivano di casa alle sette di mattina e rientravano alle cinque di pomeriggio. Quanto ci è costata questa scelta? 

Il salario con cui abbiamo soddisfatto le esigenze futili del nuovo benessere è servito a compensare vanità e mode del tempo, ma come emancipazione intellettuale, politica e sindacale siamo rimaste come eravamo. Non c’è stata una effettiva crescita. Quale operaia dopo il turno in fabbrica, una volta tornata a casa, poteva leggere un libro, fare una vita sociale? L’emancipazione femminile determinata dal lavoro extrafamiliare non può equivalere ad una perdita del ruolo di donna né può essere concepita come inibizione del desiderio di crescere e migliorarsi spiritualmente e socialmente come persona. Qui in zona non c’era vita sociale, la gente pensava a migliorare la qualità della vita solo in senso economico, la macchina grossa significava che stavi meglio di prima. Però oggi la resa dei conti ci fa capire che l’uomo deve ora usare l’intelligenza, creare qualcosa di nuovo per uscire dallo stallo in cui siamo caduti».